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Si sta dibattendo in questi giorni, a livello politico, su un eventuale diritto da dare ai giovani immigrati, che frequentino le scuole italiane da qualche anno, di poter ottenere la cittadinanza italiana.
Una proposta lanciata dal PD qualche anno fa (visto che lo “jus soli”, cioè la cittadinanza data automaticamente a chi nasca in Italia, anche se figlio di extracomunitari, non sarebbe passato in Parlamento) e colpevolmente non attuata dai Governi a larga maggioranza precedenti , da quello di Gentiloni a quello di Mario Monti.

Mi si lasci allora fare appello alla mia esperienza quasi quarantennale di professore, prima di andare in pensione. La scuola italiana ha tanti difetti, in realtà moltissimi, però è sicuramente un luogo di integrazione, di scambio di cultura, anche di affettuosità e generalmente di interrelazione paritaria tra gli studenti.
Mai, e poi ridico mai, in quarant’anni, ho avuto il dispiacere di assistere a episodi di razzismo tra gli studenti della stessa classe. Il razzismo viene dopo, fuori, negli stadi di calcio, nelle manifestazioni pubbliche, ma non nella scuola (anche perché generalmente gli insegnanti sono giustamente vigili su questo argomento).

Mi si lasci citare alcune mie esperienze: una delle alunne più brave che abbia mai avuto era una ragazza albanese, che studiava presso l’Istituto Bertacchi di Lecco (anno intorno al 2001). Aveva tutti 10 in TUTTE le materie , da Italiano a Matematica (cosa molto rara) Scienze Musica Inglese ecc. Impossibile non darle 10, per la sua incredibile determinazione, capacità di studi e di apprendimento, intelligenza e adattamento.
Ma tante ragazze cosiddette “straniere” ho visto negli anni con la stessa disponibilità, attenzione, determinazione: molte di loro avevano capito che la scuola è un luogo di promozione sociale, che la cultura era qualcosa di utile, che anche se poi andavi a fare qualche lavoro umile (dalla lavapiatti alle pulizie, alla “badante”) la cultura è qualcosa che rimane in te stesso/a e che ti valorizza, e in futuro può anche darti qualche prospettiva di lavoro in più.

Un concetto che purtroppo molti giovani e giovanissimi italiani, che a volte vivono la scuola solo come un obbligo o un dovere stancante imposto dai genitori, spesso hanno smarrito.

Mi si lasci ricordare un altro alunno molto particolare, un simpatico signore di più di 40 anni, che proveniva mi sembra dal Congo (un paese in perenne guerra) e che frequentava il Parini serale , negli anni intorno al 2010. Nel suo paese si era laureato in Matematica (materia in cui naturalmente era bravissimo), avrebbe anche potuto fare anche il professore o supplente, ma in Italia la sua laurea non era riconosciuta (anche questo un problema che andrebbe affrontato). Il suo obiettivo era di lavorare in Italia e guadagnare qualcosa per potersi comprare un trattore e con quello andare a lavorare i campi nella sua Africa ! Che lavoro aveva trovato da noi ? Faceva il raccattapalle allo Stadio di San Siro, così si guardava gratis tutte le partite (e naturalmente era un grande tifoso dell’Inter ) !

Torno quindi più indietro nel tempo, e vado alla Scuola Media di Introbio, intorno all’anno 1991. Era appena arrivato uno dei primi ragazzi “extracomunitari” (mi sembra dal Cameroun) che non sapeva una parola di italiano, e quindi non capiva un accidente di quello che si diceva nelle lezioni in classe. All’epoca non c’erano ancora i “facilitatori” culturali, gli intermediari, professori specifici che si occupavano di loro.
Come risolvere il problema ? Ho una idea che ancora oggi ritengo “geniale” (modestamente !). Incarico due ragazzine (brave) di stargli vicino, di fare un gruppetto, in fondo alla classe: mentre noi andavamo avanti con le lezioni normali, per il resto della classe, loro gli sarebbero state accanto con il libro di grammatica per insegnargli i fondamenti dell’Italiano.
Fu una esperienza interessante, anche per loro (che forse ancora oggi se lo ricordano): il ragazzo fece grandi progressi, e dopo qualche mese era riuscito finalmente a capire la nostra lingua.

Insomma, in conclusione, lo “jus scholae” è un diritto inalienabile che in un paese civile andrebbe riconosciuto ma senza alcuna esitazione. L’integrazione che la scuola garantisce è qualcosa di unico e di imperdibile.
Ricordo in conclusione che senza i bambini e i ragazzi “extracomunitari” molte scuole in Valsassina sarebbero state chiuse, per mancanza di numero minimo di alunni (almeno 15 alunni per classe, altrimenti il Provveditorato non accetta la formazione di una nuova classe, elementare media o superiore).
Altro che costruire nuove scuole, senza di loro avremmo chiuso già da un pezzo molte di quelle esistenti !
Oltre al fatto che questi “stranieri” spesso diventano bravissimi lavoratori, di cui le aziende hanno bisogno come il pane.

Lo “Jus scholae” allora è il minimo che possiamo dare loro: i loro figli sono italiani a tutti gli effetti, e anche le ultime Olimpiadi di Parigi lo hanno dimostrato !

Enrico Baroncelli

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