Cresce in abbondanza anche nei nostri prati dove spicca per il colore giallo intenso dei suoi petali che a maturazione si ripiegano verso l’esterno lasciando spazio ad una fitta colonia di pistilli concolori ai quattro petali. I botanici lo chiamano Chelidonium majus, utilizzando il latinorum introdotto come sempre dall’immarcescibile Carl Nilsson Linnaeus (per noi Linneo) nella seconda parte del Settecento.
L’etimologia, come spesso accade in botanica, fa riferimento al termine greco chelidon che significa “rondine”. Secondo alcuni perché l’essenza fiorisce nel periodo di arrivo delle rondini e si conclude quando ripartono per il sud. Ma altri sostengono che il nome proviene dall’impiego che questi uccelli migratori fanno del lattice giallastro emesso dagli steli spezzati e che sarebbe in grado di aiutare i rondinini appena nati ad aprire gli occhi. Una specie di collirio naturale, insomma. Ma c’è chi giura che l’appellativo derivi dal latino: “coeli donum”, dono del cielo, imposto dagli alchimisti (fra i quali, nel XVI secolo, spiccava Paracelso) che con la ricerca della “pietra filosofale” puntavano a ricavare oro dai fiori gialli affidandosi alla cosiddetta “teoria delle similitudini” in base alla quale dal trattamento alchemico di un fiore giallo poteva essere prodotto l’oro giallo.
Un tempo il lattice del Chelidonio veniva impiegato anche per l’asportazione di calli, porri e verruche. In epoche più remote con il “succo” (piuttosto aggressivo) di questa pianta erbacea, come spiegavano Galeno e Dioscoride, si curavano l’itterizia e in generale le patologie epatiche. SI tratta comunque di un’essenza tossica in tutte le sue parti e, se volete liberarvi di un callo o di un porro, lasciate perdere il fai da te, l’omeopatia o la pietra filosofale: molto meglio ricorrere al farmacista.