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…Chiudo gli occhi…odo una voce bassa, calma, che fa parlare le parole, le rispetta, sospira alle virgole e si ferma per un nano secondo ai punti…evoca, invoca la poesia di raccontare l’emozione…
E’ la voce di Maria Teresa Cassani, la professoressa, che con maestria il 6 novembre 2024 all’Unitre Valsassina ha spiegato la poetica di Umberto Saba e Mario Luzi.

Elio Spada ha introdotto il tema spiegando che la parola costituisce il fondamento del pensiero e che comunicare la propria emozione con la parola vuol dire descrivere la realtà, il quotidiano: noi non parliamo perché pensiamo, ma pensiamo perché parliamo. La lingua descrive il pensiero, senza la lingua l’idea è incomprensibile. Quindi ogni vibrare di suono, dai fischi o mugolii primitivi fino alle emissioni vocali sempre più articolate, ci permette di capire chi siamo e dove andiamo per avvicinarci alla verità, al Verbo, cioè a Dio. La parola ha creato l’immagine della luce e dell’universo, oggi l’immagine pare abbia oscurato la parola senza prospettive future per il pensiero. Sarà davvero così?

Una gugliata di filo rosso, bianco e verde unisce i due poeti che hanno amato e aspirato a un’Italia libera radicata sui valori di un pensiero libero. Saba e Luzi sono accomunati dal senso dell’onestà, afferma Maria Teresa Cassani, dalla solidarietà verso il prossimo perché ritengono che l’uomo da solo è destinato all’isolamento triste della solitudine. L’umiltà e l’umanità li caratterizza, desiderano vivere accanto agli altri e anche di mettersi all’ultimo posto se le circostanze lo richiedono.

“Ho parlato a una capra/Era sola sul prato, era legata./Sazia d’erba, bagnata/alla pioggia, belava./Quell’uguale belato era fraterno/al mio dolore./Ed io risposi, prima/per celia, poi perché il dolore è eterno,/ha una voce e non varia./Questa voce sentiva/gemere in una capra solitaria…” Umberto Saba, La Capra.
Se qualcuno ha guardato gli occhi di una capra avrà notato che le pupille non sono rotonde, ma rettangolari, orizzontali, che collegano le due semisfere dell’iride color del muschio. L’animale è semiselvatico, si accontenta di mangiare l’erba che gli altri animali scartano, si inerpica fin lassù dove osa solo il gheppio. Il suo latte è aspro, ma il suo sguardo è intenso, quasi conoscesse cose non comprensibili all’uomo e nello stesso tempo, quella riga nera come il carbone che attraversa l’occhio fa soggezione.

Nel belato della capra il poeta intravede il lamento del dolore eterno comune a tutte le creature, prosegue la professoressa, Saba è convinto che l’afflizione non è prerogativa della ragione umana, anzi, la sofferenza è nel destino di tutti gli esseri viventi.
La biografia di Umberto Poli, con pseudonimo Saba probabilmente in onore della sua balia considerata ‘mamma di gioia’, fa trapelare il suo iter poetico. Saba nasce nel 1883 a Trieste e muore a Gorizia nel 1957. Visse le due guerre mondiali del novecento con accorato conflitto interiore. Abitò nel ghetto di Trieste, città brulicante di vicoli e osterie…. Ancora infante, la madre ebrea lo affidò alla balia slovena cattolica Gioseffa Schobar o Sabaz che lo curò con amore per i primi 3 anni di vita. Poi fu mandato a Padova da alcuni parenti fino ai 10 anni. Tornato a Trieste con la madre e due zie frequentò il ginnasio studiando di malavoglia nel retrobottega di mobili usati di proprietà della famiglia. Il padre, dopo 3 mesi dal matrimonio celebrato nel 1882, abbandonò la moglie gravida e non si fece più vedere. Il poeta lo incontrò per la prima volta all’età di 20 anni. Ebbe pietà di lui, lo vide come un vecchio bambino allegro e spensierato…

L’infanzia senza affetto genitoriale e la giovinezza travagliata da un disagio mentale sempre più evidente, lo indussero a chiudersi come una palla di riccio, costantemente malinconico. Nel 1903 comparvero le sue prime crisi di nevrastenia. Viaggiò, frequentò l’università di Pisa, incontrò Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, pubblicò le sue prime opere sulle pagine de ‘Il lavoratorecome ‘Il Borgo’, ispirato da Gabriele D’Annunzio di cui fu un grande ammiratore. Si aggrappò agli schemi metrici tradizionali per esprimere le radici del suo irrequieto inconscio.

Il Canzoniere è il libro più significativo della poetica di Saba che riporta 437 liriche scritte tra il 1900 e il 1954 che raccontano la storia della vita interiore del poeta, una sorta di romanzo psicologico. Saba sposò nel 1909 Lina, Carolina Wolfler, che amò con dedizione tutta la vita a cui dedicò la poesia “A mia moglie”, collocando la stessa in 7 femmine di 7 animali diversi: bianca pollastra, giovane mucca, cagna dagli occhi dolcissimi, coniglia timida, rondine di primavera, formica e ape laboriose. La lirica termina con il ringraziamento di Saba a Dio per aver accanto la sua sposa. Concepì questa poesia esaltando le qualità degli animali, ritenuti creature buone. Nel 1910 nacque sua figlia Linuccia, paragonata alla schiuma del mare leggera e mutevole.

Collaborò con diversi giornali come ‘Il resto del Carlino’ e il ‘Corriere della sera’, scrisse anche su ‘Il popolo d’Italia’ di Benito Mussolini in quanto interventista, date le sue origini triestine.
Nel 1938, con le leggi razziali da parte del regime fascista, fu costretto a emigrare in Francia con la famiglia. Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Carlo Levi lo aiutarono. Nel 1955 si convertì al cattolicesimo ricoverato in una clinica a Gorizia, nella fede in Dio trovò finalmente quel approdo di pace inseguito e mai raggiunto nel suo peregrinare, colmò quel desiderio di appartenenza ricercato inutilmente per anni nella fragilità della sua disordinata inquietudine.

Maria Teresa Cassani legge: “Trieste è una donna”, dove la città viene descritta come un ragazzaccio dagli occhi azzurri dalle mani grezze, “Città vecchia” coi suoi luoghi e caffè malfamati frequentati da prostitute e marinai, a cui si è ispirato Fabrizio De Andrè, “Amai” …amai triste parole che non uno osava. M’incantò la rima fiore amore…”Ulisse” dove il destino dell’uomo coincide col suo desiderio. Attraverso la psicanalisi Saba usa un linguaggio chiaro, in apparenza semplice perché nasconde la profondità dell’anima, per raccontare il vivere difficile degli uomini, saggi o malfattori che, alla fine, sono tutti figli di Dio.
Saba lascia in eredità ai poeti futuri la sua idea di poesia e cioè che la rima deve tendere a rappresentare la realtà quotidiana con sincerità, senza esagerazioni, al fine di rispettare la propria anima…’Quello che resta da fare ai poeti’ testo del 1912.

Mario Luzi, spiega la professoressa Cassani, nasce a Firenze nel 1914 e lì muore nel 2005. Trascorse l’infanzia serenamente, studiò con profitto al liceo e infine si laureò in letteratura francese. Nel 1942 sposò Elena Monaci e l’anno dopo nacque il figlio Gianni. Incontrò intellettuali ermetici di rilievo come Oreste Macrì, Carlo Bo, Piero Bigongiari, Alessandro Parronchi, e la poetessa Cristina Campo di cui si innamorò. Si separò dalla moglie, ma Cristina morì prematuramente. Collaborò a diverse riviste d’avanguardia come ‘Campo di Marte’ e nel 1935 uscì la sua prima raccolta poetica titolata ‘La barca’ edizione erudita, ermetica, filosofica, con un aggancio al simbolismo di Mallarmè. Insegnante alle scuole superiori a Parma e a Roma, nel 1945 fu docente al liceo scientifico Leonardo da Vinci di Firenze, e nel 1955 gli venne assegnata la cattedra di Letteratura francese all’Università degli studi di Firenze.

Moltissime le opere di Luzi che segnano gli anni a venire, per citarne alcune: nel 1963 ‘Nel Magma’, in cui si evince una concezione sacra dell’esistenza, dalle foci alla sorgente per incontrare Dio che è la sola Verità. Con accurata attenzione fa uso della parola in ogni suo testo. La poetica di Luzi è complessa perché la sua idea è complessa: dentro alle sue poesie il suo io si frantuma in tante persone. Fu un poeta politico, coniugò l’impegno civile con l’impegno religioso. Nel 1978 ‘Al fuoco della controversia’, nel 1985 ‘Per il battesimo dei nostri frammenti’… Fu anche critico cinematografico con 80 recensioni tra le quali ‘Roma ore 11’.
Il 14 ottobre 2004, a 90 anni, fu nominato dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi senatore a vita. Luzi era un moderato, liberale, antifascista, pacifista, profondamente cattolico. E da cattolico sperò tutta la vita in una fratellanza universale.

La sua poetica è improntata sulla spiritualità con ‘Avvento notturno’ del 1940 dove è forte l’influenza del surrealisti: paesaggi lunari, angeli lacrimanti, marmi freddi e bianchi…In ‘Primizie del deserto’ del 1952 la realtà è ostile e il poeta è considerato un orpello. Il poeta si rifugia in un torpore autocontemplativo. In ‘Onore del vero’ del 1957 con la poesia “Osteria” dietro ai vetri c’è il vento d’autunno e l’odore delle fascine bruciate, la luce del sole che si sposta, poi…ma il suono delle stoviglie mosse dall’oste in cucina richiama l’avventore alla quotidianità, alle cose semplici del fare di tutti i giorni… ‘Dal fondo delle campagne’ del 1965, ‘Su fondamenti invisibili’ del 1971 riesce a inserire nella lirica poetica il boom economico e la realtà delle città attraverso il dialogo, spesso con figure femminili perché le donne, secondo Luzi, conducono gli uomini sulla strada giusta.

In “Augurio” la donna casalinga ringrazia Dio della sua condizione nell’opera del mondo… Il poeta, che aborriva la teologia dell’utile, considerato l’architetto delle nuove tristi città, riuscì a includere il paesaggio tetro che gli si prospettava davanti agli occhi con la speranza di collegare l’esistente, corroso dal vento visitato da rare comparse umane, a un divenire migliore. Luzi, dice la professoressa, essendo cattolico infondeva sempre speranza, invitava a lodare Dio per le piccole cose perché solo così l’uomo poteva arrivare ad amare la vita e…anche la morte.

“Padre mio, mi sono affezionato alla terra/quanto non avrei creduto./E’ bella e terribile la terra./io ci sono nato quasi di nascosto…./il cuore umano è pieno di contraddizioni…/La vita sulla terra è dolorosa,/ma è anche gioiosa: mi sovvengono/i piccoli dell’uomo, gli alberi, e gli animali./Mancano oggi qui su questo poggio che/chiamano Calvario/…” Mario Luzi, ‘Meditazione sulla via Crucis’ del 1999 per accompagnare la processione del Venerdì Santo guidata da Papa Giovanni Paolo II.

MARIA FRANCESCA MAGNI

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